Tutti abbiamo sentito parlare di pet therapy o magari della zooterapia, che è la traduzione italiana di questo termine: l’uso di animali d’affezione, come cani, gatti, conigli o persino cavalli nella cura di varie patologie mentali e comportamentali. È facile pensare che sia un’invenzione abbastanza recente, derivata dalla consapevolezza dell’effetto delle emozioni e dell’empatia sugli stati mentali e dal rapporto che abbiamo oggi con questi animali, visti come amici e compagni più che come semplici strumenti da utilizzare per fornire cibo, forza motrice o altri lavori.
In realtà, sembra che quella che oggi chiamiamo pet therapy sia stata usata già nel 1792, dallo psicologo WIlliam Tuke dello York Retreat Hospital, in cui il medico fece interagire i pazienti con piccoli animali di cui dovevano prendersi cura, con notevoli risultati per la loro serenità mentale, l’autocontrollo e lo scambio affettivo. Questo tipo di terapia fu praticato anche nell’Ottocento in Germania e, verso la fine del Diciannovesimo secolo, in Francia, per trovare poi ulteriori utilizzi nel 1919 quando, negli Stati Uniti, vennero usati i cani per curare schizofrenia e depressione nei reduci della Grande Guerra. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, gli studi e la pratica clinica si sono fortemente intensificati, tanto che ormai è universalmente accertata l’efficacia del prendersi cura di animali da compagnia per tutta una serie di disagi e patologie, dall’ansia alla depressione, nella riduzione dello stress, fino alla prevenzione dell’infarto e nel recare notevoli benefici ai pazienti autistici.
Un punto di svolta fondamentale, in questo senso, è avvenuto nel 1953, per un caso accaduto allo psichiatra inglese Boris Levinson. Il medico aveva in cura un bambino autistico, a cui le cure del tempo non avevano apportato miglioramenti sostanziali; un giorno, i genitori del bambino erano però arrivati, con il piccolo paziente, in leggero anticipo. Levinson, in quel momento, era impegnato e fece accomodare la famiglia nel suo studio dimenticandosi di fare uscire il suo cane Jingles. Non appena il cane vide il bambino, si diresse verso di lui e cominciò a leccarlo. Il piccolo non mostrò alcun tipo di timore o paura, ma anzi ne fu talmente conquistato che cominciò ad accarezzarlo dolcemente. Alla fine di quell’incontro il bambino manifestò uno dei suoi pochi desideri espressi fino a quel momento della sua vita: tornare nello studio dello psichiatra per poter giocare di nuovo con il cane. Come spiega Levinson nell’articolo The dog as co-therapist (dove tra l’altro viene usata per la prima volta l’espressione pet therapy), il bambino, nel tempo, continuò a giocare con Jingles e questo permise allo psichiatra di inserirsi nel gioco, creando così un rapporto col suo piccolo paziente. La presenza di un animale permetteva al bambino di esprimere le proprie difficoltà in modo indiretto senza essere intimorito dal rapporto diretto con Levinson.
La chiave della zooterapia è proprio nella capacità che noi umani abbiamo di interagire con gli animali a un livello elementare, percependone i bisogni per stabilire un rapporto affettivo immediato, che senza le difficoltà e le complicazioni che si creano con gli umani. In altre parole, è come se con l’animale di affezione si aprisse una breccia nel disagio e nelle difficoltà di relazione e, da qui, si potesse lavorare per il pieno recupero della persona: un rapporto affettivo diretto, immediato, capace di dare gratificazione e di far sentire alla persona che sta facendo del bene a qualcun altro.
Del resto, lo sappiamo bene ogni volta che apriamo la porta di casa e il peloso ci viene a fare le feste: in quei minuti di puro affetto, di scambio vero e incondizionato, ci sentiamo subito meglio. Una terapia del benessere, con quattro zampe e una coda.